(voce di SopraPensiero)
Da sempre le città, nel bene e nel male e con tutti i loro pregi e difetti, sono “motori primi” del progresso (anch’esso nelle sue molte accezioni, tanto positive quanto negative) e acceleratori di ogni forma di novità, intellettuale, materiale, sociale. In questo gigantesco meccanismo di sviluppo – dove i cittadini si sentono a un tempo protagonisti e, in un certo senso, legittimi proprietari della vita della città – capita che alcune delle forze in gioco tendano a monopolizzarne a proprio vantaggio le dinamiche, riducendo quelle opportunità che fino a poco prima erano a disposizione di tutti. Così accade ad esempio che gli spazi pubblici si riducano sempre di più a favore di quelli finalizzati al profitto privato (si pensi al proliferare dei centri commerciali); e qui può accadere che i cittadini – che si sentono defraudati – si ribellino, in maniera anche imprevedibile e violenta.
Non c’è bisogno di tornare con la mente ai tempi di Napoleone III per capire di che stiamo parlando: basti pensare al nostro recentissimo Occupy Wall Street, o alle rivolte londinesi di qualche anno fa.
David Harvey, nel suo ultimo Città ribelli (ed. Il Saggiatore) analizza la tensione tipicamente “urbana” fra chi abita la città sentendola propria e che – magari a distanza di migliaia di chilometri – cerca di sfruttarne le risorse per nessun altro motivo che l’arricchimento personale. Capitalismo e città sono in certo modo e in certa misura antitetici? Un tema a noi così vicino che val la pena di approfondirlo.
D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, ed. Il Saggiatore, 2013, pp. 220, euro 20.